Intervengo nel dibattito nutrendo più motivi d'imbarazzo. In primo luogo credo di essere l'unico non-meridionale che ha preso la parola in questo dibattito, se si prescinde dal segretario che è intervenuto per motivi istituzionali. Lo dico per sottolineare un elemento critico di questa discussione e cioè se è ovvio che il problema meridionale va affrontato in primo luogo dai compagni meridionali, come facciamo a farlo diventare un problema nazionale senza che al dibattito su questo tema partecipi almeno il quadro dirigente nazionale dell'intero Partito? è un limite che bisognerà rapidamente superare.

Il secondo motivo di imbarazzo è legato al fatto che io non sono uno specialista di questioni meridionali. Questo, in qualche modo pesa: guardare alla questione meridionale dal Nord può significare assumere ottiche diverse e, comunque, evidenziare elementi diversi da quelli che altri compagni hanno sottolineato, ma senza avere il possesso pieno della materia.

Il terzo elemento di imbarazzo è motivato dal fatto che ho seguito con grande attenzione il dibattito, appun-tandomi le cose che mi parevano più significative dal mio punto di vista ma non sono riuscito, ovviamente, in questo spazio ristretto a metabolizzarle e a collocarle in modo organico nel mio schema di lettura della situazione nazionale.

Nello scenario politico che si apre, la questione del Mezzogiorno diventa centrale nella prossima conferenza programmatica nazionale.

Per questo, già oggi, c'è da chiedersi se con i lavori socialmente utili possiamo determinare un nuovo e diverso modello di sviluppo. Questo non è sufficiente.

Sgombro il campo da equivoci, di-cendo che in Sardegna abbiamo proposto un referendum regionale attraverso il quale chiediamo che un terzo delle risorse disponibili, circa 1000 miliardi, per i prossimi 10 anni vengano utilizzati per un piano di lavori socialmente utili. Questo, però, non è sufficiente perché non possiamo prescindere, come diceva Brunetti nell'introduzione, dalle condizioni materiali del Mezzogiorno, dalle grandi carenze infrastrutturali, dai processi di internazionalizzazione dell'economia.

Per fare un esempio, cosa diciamo sulla questione della tutela degli im-ianti industriali nel Mezzogiorno - penso alla realtà del Sulcis e dell'inglesiente in Sardegna - che è certamente una questione economica e sociale, ma diventa anche una questione culturale e democratica perché con la liquidazione di questi impianti si azzera la cultura e la storia di una parte significativa del movi-mento operaio del Mezzogiorno?

Come ne avevamo discusso prima che facesse irruzione sulla scena politica italiana la prospettiva del presidenzialismo. Questo, alterando la qualità della partecipazione consapevole delle popolazioni alla produzione e al controllo delle scelte e dei rapporti politici e sociali, avrebbe una sicura e per ora incalcolabile influenza negativa su un progetto, pur necessario, di costruire un ruolo e una collocazione qualificati del mezzogiorno nei processi di globalizzazione e di inte-grazione sovranazionale in atto. Infatti i vincoli e gli ostacoli ad un avanzamento del mezzogiorno non sono stati e non sono prevalentemente di natura economica, ma piuttosto riferibili ad un deficit di autogoverno e di autonomia collettiva ed individuale. Credo che questo deficit sia stato aggravato nel corso dell'ultimo quarto di secolo dal tipo di compromesso che ha retto il modello di sviluppo italiano, che, detto all'ingrosso, può essere espresso così: al centro-nord mano libera alle imprese sulla ristrutturazione, al sud mano libera alla intermediazione politico-affaristica sulla spesa pubblica trasferita (l'intreccio affare-politica, comunque, non è stata, come ha dimostrato tangentopoli, una prerogativa del mezzogiorno).

Vorrei dire agli amici, ai compagni e compagne, a chi è intervenuto di continuare questo seminario a cui avrei voluto assistere fino alla fine, ma purtroppo alcuni impegni non me lo consentono.

Io credo che noi abbiamo bisogno di organizzare esperienze, punti di vista e fare un lavoro in progresso. Anche per questa ragione io mi situerò un po' in mezzo tra la relazione di Mario Brunetti, che naturalmente condivido, e l'intervento che faceva Giovanni Mazzetti, con cui sono anche molto d'accordo, per vedere come sia possibile tentare una connessione tra questa pratica dell'esperienza ed i problemi che Gio-vanni Mazzetti ci ha proposto con grande forza.

Concordo con l'impostazione del problema che Brunetti ha fornito con la sua introduzione, Non posso però nascondere anche un disagio. Ed è un disagio che il susseguirsi degli interventi non fa scomparire. Di che cosa si tratta? In questa sede, come in altre sedi, sento spesso i compagni evocare "una nuova idea di sviluppo" o il "bisogno di uno sviluppo nuovo".

Un'evocazione con la quale non si può non essere d'accordo. Ma che cosa la segue? Che cosa accade quando si deve passare a dar corpo a questa idea e a questo bisogno? Quasi nulla: vale a dire che non c'è alcun passaggio dall'astratto al concreto, ed il discorso soffre di una piattezza che lo rende accettabile solo per coloro che già lo condividono.

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