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Quando il responsabile del Dipartimento Mezzogiorno, Mario Brunetti, mi ha invitato a questo seminario, ho pensato che il modo più utile per dare il mio contributo ai lavori era di tentare di inquadrare la questione meridionale nel più ampio contesto della ristrutturazione in atto del sistema capitalistico nazionale ed internazionale.

Lo farò senza alcuna presunzione dottrinaria (che sarebbe sciocca da parte mia), ma semplicemente sulla base di alcuni elementi a disposizione di tutti.

Vorrei innanzitutto ricordare che ci aiutano, nella nostra analisi, le opere degli eminenti studiosi (e politici) che si sono dedicati a questo immenso problema: da Antonio Gramsci a Gaetano Salvemini, da Giustino Fortunato a Guido Dorso, da Manlio Rossi Doria a Emilio Sereni, da Giorgio Amendola a Pasquale Saraceno.

Ma vorrei dedicare queste poche riflessioni soprattutto a Francesco Saverio Nitti, lucano, ministro dell'Industria nel governo di Giovanni Giolitti, negli anni definiti spregiativamente dai fascisti, dell'"Italietta".

E' a lui che l'Italia (non solo il Mezzogiorno) deve se, all'inizio del secolo, (siamo nel 1912) la sua condizione sociale fece un salto di qualità che la pose, in questo campo, ai vertici europei. Parlo della creazione dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni e, quasi contempora-neamente, dell'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale.

Se pensiamo che - ottant'anni dopo - si tenta di distruggere l'I.N.P.S. e si è consegnato ai privati l'I.N.A., non possiamo che riscontrare quanti passi indietro abbia fatto la solidarietà nazionale nel nostro Paese.

Il panorama mondiale che è di fronte a noi ci mostra una spettacolare riorganizzazione del sistema capitalistico, dai punti di vista politico ed economico.

Questa riorganizzazione assume la forma di una sempre crescente concentrazione in poche mani, non solo di capitali, ma dei destini di milioni di uomini.

La concentrazione economica ha raggiunto, dovunque, proporzioni gigantesche. Nel settore industriale, bancario e finanziario, nel settore assicurativo, nell'informazione e nello spettacolo si vanno creando enormi gruppi che sono multinazionali di nome, ma i cui cervelli sono quasi esclusivamente a New-York, a Tokyo, a Francoforte.

L'Italia non poteva rimanere estra-nea a questo processo e ne è rimasta in realtà coinvolta: purtroppo questo è avvenuto ed avviene soprattutto attraverso la vendita a gruppi stranieri di imprese nate e cresciute nel nostro Paese.

Dico purtroppo, non per uno spirito nazionalistico che non fa parte (in questo senso) della mia formazione culturale, ma perché conosco per esperienza diretta i danni che vengono automaticamente provocati alla scienza applicata, alla tecnica, alla tecnologia, alla managerialità, al livello culturale del nostro Paese, quando le decisioni strategiche vengono prese altrove e l'azienda italiana deve occuparsi solo della "provincia italiana".

E' emblematico quanto sta succedendo nella attività di ricerca del settore farmaceutico, che è pressoché inesistente da quando l'industria farmaceutica è stata in gran parte venduta all'estero.

Ho voluto fare un breve cenno alla ristrutturazione capitalistica che è davanti a noi, perché anche l'analisi di quanto sta avvenendo dimostra che il problema meridionale non è affrontabile se non nell'ambito di una politica nazionale. Anzi, il Mezzogiorno rappresenta oggi il nodo cruciale dell'unità nazionale, e deve essere visto nel quadro di un piano generale dell'economia italiana e del suo sviluppo.

Per l'Italia, democrazia economica, anzi democrazia senza aggettivi, vuol dire, soprattutto nel Mezzogiorno, lotta alla disoccupazione, efficienza dei servizi e delle amministrazioni, creazione dei servizi e delle amministrazioni, creazione delle condizioni per l'emersione del sommerso, controllo e margi-nalizzazione delle criminalità.

E' questa una questione pregiudiziale, che ha dimostrato sino ad oggi di non essere risolvibile con la sola destinazione di un volume elevato di risorse alle regioni me-ridionali.

La politica del Mezzogiorno non può più essere una politica di appalti, né di legislazioni speciali che abbreviano le procedure, ma le rimettono a poteri arbitrari e a collusioni nascoste fra potentati pubblici e interessi privati.

Occorrono fondamentali ed essenziali progetti strategici, in cui impegnare direttamente, Stato, sindacati ed imprese, e occorre dall'altra parte rafforzare gli enti di governo regionali e locali, ri-scoprendone contestualmente l'autonomia e la responsabilità.

Ciò esige un investimento sino ad ora mai fatto in capitale umano, e la fine della discrasia, che sinora c'è stata, fra grandi impegni finanziari in opere costruite per intero o a metà, e attenzione marginale alla formazione e all'ambiente.

Per quanto riguarda la formazione, occorre creare specifici strumenti anche al di fuori del Mezzogiorno. Servono addestramento professionale della dirigenza amministrativa e tecnica locale, occorre creare capacità di gestione dei servizi.

Per quanto riguarda l'ambiente, oc-corre affiancare alle nuove infrastrutture una economia della manutenzione, diffusa, molecolare, tecnologicamente avanzata, che riscatti dalla degradazione le sue città, i suoi servizi, il suo patrimonio naturale e artistico.

Gli antidoti più forti alla criminalità organizzata sono il rafforzamento del tessuto civile, l'esistenza di opportunità non effimere di occupazione, la formazione di un ceto tecnico amministrati-vo-pubblico, che sia richiamato alle sue responsabilità, e dotato della cultura e dei servizi per esercitarle.

La visione integrata della "questione meridionale" intende superare l'incapacità analitica e propositiva che considera lavori pubblici e turismo, gli unici due possibili settori di intervento.

Si tratta di soluzioni non erronee in quanto tali ma del tutto insufficienti: in primo luogo perché non danno una risposta organica e strutturale ai problemi della qualità e della quantità dell'occupazione e poi perché, da sole, non possono che confermare le condizioni ambientali preesistenti e non modificano i divari rispetto alle aree nazionali ed europee più sviluppate.

Se esse fossero confermate, la politica di solidarietà tornerebbe ad essere un fenomeno puramente assistenziale, che si avvita su se stessa e che alimenta, di fatto, il degrado sociale e politico del Paese.

La questione meridionale deve essere affrontata giocando in contemporanea su tutti i fattori che la determinano. Ritenere che esista un unico fronte d'attacco preliminare ad altri dal quale si possa dipanare poi tutta la complessità della questione - sia quella della giustizia o quella della scuola o altro - significa il fallimento prima di tutto di quel fronte d'attacco e poi, tutta l'operazione.

Questa considerazione, del tutto generale, vale anche per le linee di politica economica.

Non è inutile ricordare qui che stanno avvenendo nel mondo dei fenomeni che possono influenzare le scelte del Mezzogiorno. Ne cito tre.

Il primo è la riduzione costante del prezzo del petrolio, in relazione al fatto che i metodi di prospezione e di perforazione si affinano continuamente, rendendo praticamente illimitate le riserve.

Il secondo, di segno opposto, è la crisi alimentare mondiale. Essa deriva soprattutto, ma non solo, dalla diminuzione in atto nelle produzione di cereali nei due maggiori produttori mondiali: gli Stati Uniti e la Russia. Ne deriverà un aumento di prezzi, con conseguenze di rilievo sull'inflazione nei principali paesi. Ma già in questo momento gli stoks sono al minimo storico, mentre aumenta la po-polazione mondiale.

Il terzo è la rarefazione dell'acqua.

Anche in considerazione di questi fenomeni, si aprono per il Mezzogiorno nuove prospettive legate alle risorse di cui dispone:

- una straordinaria fonte di energie giovanili.

- un immenso patrimonio ambientale.

- un grande patrimonio archeologi-co, artistico.

E' necessario riaprire il capitolo della industrializzazione: ricordiamo tutti che l'intera sinistra e la parte migliore del mondo cattolico erano convinti - negli anni sessanta - che essa rappresentasse la saldatura tra la storica classe operaia del Nord e la nuova classe operaia del Sud. Una immagine che mi affascina tuttora, anche se i fatti hanno dimostrato che "quella" industrializzazione (dell'acciaio, del petrolio) era in ritardo sul ciclo mondiale.

Ma rimango convinto che non è possibile pensare ad un rinnovamento del Mezzogiorno senza l'agricoltura e l'industria, saltando cioè la fase dello sviluppo produttivo: non si possono dare servizi dove non si producono merci. Il post industriale nasce, dovunque, dall'industria.

C'è invece bisogno di una nuova strategia e nell'agricoltura e nell'indu-stria: e questo implica un forte impegno dello Stato - in tutte le sue articolazioni territoriali - e delle imprese.

Tenuto presente che la quota degli addetti all'industria del Mezzogiorno è di circa dieci punti inferiore a quella del centro-nord, sembra comunque evidente che è in questo settore che si accumula maggiormente il divario occupazionale.

Ma questo divario sottende, anche, difficoltà rilevanti di attuazione di un processo di riequilibrio.

In questi anni l'unica politica industriale italiana è stata quella valutaria. Attraverso la svalutazione della lira si sono avvantaggiate, direttamente o indirettamente, quelle imprese che, avendo una produzione per la quale non era necessario importare materie prime pregiate e tecnologie, hanno potuto fruire ap-pieno dell'incremento delle esportazioni senza avere un pari au-mento dei costi dal lato delle importa-zioni.

Questa è una linea che è criticabile già a livello nazionale, perché ha incoraggiato l'affermazione della nostra industria più debole tecnologicamente.

Lo è tanto più nel Mezzogiorno, che, dalla svalutazione della lira, ha tratto vantaggi irrisori e marginali che hanno riguardato solo quelle aziende che fanno subforniture alle imprese del Nord.

E' possibile una politica che faccia emergere questi opifici dalla semiclandestinità, aiutandoli a ricoprire tutti i segmenti del ciclo produttivo - dalla progettazione al marketing - a cui sono interessati. Sarebbe già una prima rete di auto-nome attività manifatturiere.

Il Mezzogiorno, poi, deve essere sede di sperimentazione di un piano di lavori socialmente utili.

Ci sforziamo innanzitutto di tentare una definizione di "lavori socialmente utili", guardando in due direzioni:

a) nel campo della gestione e della valorizzazione del territorio: la rinaturalizzazione delle coste e dei fiumi, ed interventi di contenimento idrogeologico; il disinquinamento dei corsi d'acqua; la bonifica dei terreni derivanti dalle dismissioni industriali; il recupero abitativo dei centri storici; la riforestazione urbana, creazione di parchi, aree verdi;

b) nel campo della gestione dei centri abitati: la creazione di sedi pro-prie per i mezzi pubblici; la creazione di aree pedonali attraverso la ripavi-mentazione stradale e l'arredo urbano; la costruzione di parcheggi d'interscambio sul perimetro esterno dei centri urbani; la costruzione di microbus elettrici, navette, tranvie leggere; la manutenzione e gestione del patrimonio immobiliare pubblico; la gestione dei servizi sociali e delle attrezzature collettive esistenti ma non ancora in funzione e di quelle da realizzare; la riqualificazione e manutenzione dei sottoservizi e delle strade.

Questo campo di intervento consente l'impiego di nuove forme di imprenditorialità giovanile, cooperativa e non, e dell'associa-zionismo.

Le esperienze di questi anni dimo-strano che il problema del Mezzogiorno può essere affrontato soltanto con un progetto generale: questo progetto può essere determinato dagli interessi dei grandi gruppi privati (il caso di Melfi) o da quelli della collettività, rappresentati dagli organi istituzionali centrali e periferici dello Stato.

Non si sfugge a questa alternativa, che polverizza tutte le chiacchiere sulle virtù del mercato.

In ogni caso un intervento straordinario nel Mezzogiorno è imprescindibile. Solo uno stolido pentitismo antiinterventista ha potuto rimuovere questa verità. Mai come oggi - di fronte alla minaccia incombente di una vera e propria secessione economica e sociale - è stato necessario uno sforzo straordinario di trasferimento di risorse verso il Sud.

Nel 1994 il trasferimento di risorse dalla Germania ovest alla Germania est è stato quadruplo rispetto a quello dal Nord al Sud d'Italia.

Ma come promuovere e gestire un intervento straordinario?

E' innegabile che la cassa del Mezzogiorno degli anni Cinquanta ha rappresentato una importante innovazione politica e un poderoso attacco allo storico sottosviluppo del Sud: ma le successive fasi di ipertrofia, discrezionalità burocratica e intrallazzo partitico degli apparati rendono inconcepibile risuscitarla.

Occorrono organismi che tengano conto delle istanze democratiche delle Regioni e delle competenze delle amministrazioni nazionali.

Ma una "cabina di regia" che piloti gli interventi e recuperi fondi nazionali e comunitari; riattivi ed impegni; riduca il disordine dell'ignavia e dello spreco, è neces-saria.

Ed è in questa direzione che può e deve manifestarsi il ruolo dello Stato.

E' evidente che quando parliamo dello Stato, non pensiamo che esso debba assumere la gestione di tutte le iniziative imprenditoriali del Mezzogiorno, ma pensiamo che esso debba dotarsi degli strumenti necessari e sufficienti per indirizzare e controllare l'attività dell'im-prenditoria privata.

Questi strumenti sono i grandi enti nazionali produttori e distributori di energia (ENEL ed ENI), le regioni, le provincie ed i comuni meridionali: il tutto nell'ambito di un chiaro e dichia-rato disegno programmatico, che com-prenda specifici progetti finalizzati all'ambiente, alle aree urbane, alle infrastrutture, ai servizi pubblici, alla cultura.

E' mia convinzione che una rinno-vata politica meridionalistica debba basarsi su una consapevole azione convergente di enti nazionali, enti locali, istituti di credito, imprenditori e sindacati, in modo da creare quella coincidenza tra azione sociale e ambiti di interessi che fa del territorio un "distretto", cioè una unità organica e vigorosa.

Il "distretto" nasce quando tutti i soggetti interessati gravitano sullo stesso territorio, condividono le medesime esperienze sul terreno del lavoro, della casa, della scuola, della sanità, dei trasporti, e formano così un blocco sociale coeso e capace di azione efficace.

Non vorrei che queste mie convin-zioni fossero scambiate per simpatie federaliste: nutro una istintiva diffidenza nei confronti di quel "federalismo meridionale" che sembra sorto in parallela contrapposizione alle analoghe parole d'ordine di alcuni settori politici del Nord. E' questa una concezione che nella mente di coloro che la sostengono (non di tutti, per la verità) significa "separazione" e non appartiene quindi alla nostra strategia che si basa sull'autonomia e sul decentramento politico, ma salvaguarda l'unità istituzionale del Paese.

Guardiamo ad esempio a tre questioni specifiche: le gabbie salariali; le gabbie creditizie; la situazione del sistema del credito.

a) La proposta della Confindustria di effettuare investimenti industriali al Sud in cambio di salari più bassi e minori tutele per i lavoratori è una proposta inaccettabile: primo perché, ivi compresa l'esperienza della FIAT a Melfi, gli industriali italiani hanno sempre utilizzato le condizioni di mi-glior favore attenute al sud per esten-derle anche alle fabbriche del nord annullando così il vantaggio differenziale che sarebbe potuto eventualmente venire al Mezzo-giorno.

Secondo, perché lo scarto salariale di per sé non produce più occupazione, in quanto le tecniche produttive sono date e rigide e quindi non c'è scelta - all'interno dello stock di capitale e di tecnologie esistenti - tra più occupazione e meno capitale.

E infine, lo scarto salariale non induce certamente sollecitazioni per la modificazione del modello tecnologico.

b) Il costo del denaro è il problema principale degli imprenditori meridionali, che vedono generalmente le banche non come un motore, ma piuttosto come un freno dello sviluppo. E ritengono, per esempio, che i criteri di selezione nella concessione dei crediti sono poco o per niente validi e che la solidarietà patrimoniale sia il parametro prevalentemente usato dalle banche per valutare la con-cessione o meno dei crediti.

Ci sono poi anomalie ancora più evidenti, come ricordava Brunetti nella relazione:

L'Italia è l'unico paese europeo dove si praticano condizioni di credito così differenziate a seconda delle aree geografiche; nel sud esistono già le "gabbie creditizie", cioè un differenziale dei tassi (intorno ai tre punti in media) a seconda della collocazione geografica delle aziende.

Sui depositi, le aziende di credito pagano un interesse più basso che al nord. A un costo del denaro più alto si accompagna una minore remunerazione del risparmio.

Le banche impegnano al sud solo il 50% del risparmio raccolto, contro una percentuale dell'80% del centro-nord.

Le aziende di credito al sud conce-dono fidi bancari a fronte di garanzie reali pari in media al 90% del valore del credito concesso: nel centro-nord le garanzie richieste coprono percentualmente il 55% del credito accordato.

Si sostiene che i più alti tassi del sud siano dovuti ai maggiori rischi. Poiché il rischio Mezzogiorno è dovuto a una serie di fattori, molti dei quali esulano dalla responsabilità delle imprese, non si capisce perché tale rischio deve essere accollato solo sulle loro spalle.

A qualunque banca si rivolga, l'im-prenditore viene prima valutato come "meridionale", partecipe cioè di un contesto difficile, e poi come specifico operatore economico.

Ma se le banche considerano le capacità soggettive dell'imprenditore non sufficienti ad annullare o a ridurre il "rischio ambientale", allora di questo rischio si devono fare carico anche altri soggetti.

Perciò occorre istituire un "fondo rotativo di assicurazione per il credito del Mezzogiorno", che potrebbe essere alimentato con risorse delle fondazioni bancarie.

c) La crisi che ha coinvolto, anche con aspetti drammatici, i principali istituti del Mezzogiorno induce ad alcune considerazioni.

La prima considerazione è che la struttura creditizia meridionale ha ragione di esistere autonomamente solo se è uno strumento dell'economia meridionale e, come tale, strettamente legata alla medesima. Dal concetto di essenzialità deriva anche la sua strategia generale e conseguentemente la sua organizzazione, che deve tendere alla creazione di management e di specialisti. (Del resto quale mezzo migliore per fare emergere le grandi energie delle quali è così ricca l'Italia meridionale?).

La seconda considerazione riguarda il concetto di redditività bancaria. Non ci stupiamo che le banche del sud rilevino difficoltà di gestione che si traducono in termini patrimoniali ed in termini di conto economico, perché tale situazione rappresenta la situazione generale dell'economia meridionale; riteniamo al contrario non coerenti con i loro fini e con i loro compiti, istituti di credito che operano in zone economi-camente disastrate, i quali presentano risultati largamente positivi, perché questi istituti dimostrano in tal modo di godere di profitti di posizione e di congiuntura che vanno molto al di là del giusto reddito di impresa che l'impresa bancaria deve generare.

La banca, per i suoi fini e perché agisce a monte del processo economico e questo processo accompagna e condiziona, deve essere giudicata per l'efficacia esterna del suo operato, oltre che per il risultato annuale del suo conto eco-nomico.

Ciò non vuol dire che non valgano le sane regole del conto economico, che sono valide per qualsiasi tipo di azienda. Vuol dire semplicemente che il conto economico non è il solo metro di valutazione di un istituto, dell'opera del suo consiglio di amministrazione, dei suoi dirigenti, dei suoi funzionari e dei suoi addetti.

Ma la situazione diventa patologica quando al mancato esercizio di un ruolo si somma il cattivo andamento del bilancio: ed è questa la situazione attuale del sistema del credito meridionale.

Da queste brevi note emerge l'importanza della sfida che deve affrontare non solo la nuova classe dirigente meridionale, ma l'intero Paese.

E' una sfida che ha in sé una grande carica ideologica, non nascondiamocelo. Ma io credo,che dobbiamo ridare il giusto valore a queste parole.