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Vorrei dire agli amici, ai compagni e compagne, a chi è intervenuto di continuare questo seminario a cui avrei voluto assistere fino alla fine, ma purtroppo alcuni impegni non me lo consentono.

Io credo che noi abbiamo bisogno di organizzare esperienze, punti di vista e fare un lavoro in progresso. Anche per questa ragione io mi situerò un po' in mezzo tra la relazione di Mario Brunetti, che naturalmente condivido, e l'intervento che faceva Giovanni Mazzetti, con cui sono anche molto d'accordo, per vedere come sia possibile tentare una connessione tra questa pratica dell'esperienza ed i problemi che Gio-vanni Mazzetti ci ha proposto con grande forza.

Insomma io penso che la questione meridionale oggi, propone un sovrappiù di esposizione alla questione della trasformazione. Nella cultura dominante, oggi la questione meridionale è in parte cancellata, cioè ridotta unicamente ad uno spazio di mercato, un territorio privo di qualità, in quanto consente la ricerca di quella che ormai nella letteratura industriale si chiama il "prato verde", cioè il luogo dove si possono fare inve-stimenti non condizionati da pree-sistenze di poteri contrattuali. Invece essa non solo esiste ma non è una questione separabile, neppure nella sua eccezione dell'unità nazionale. La questione meridionale per essere rilanciata si connette immediatamente alla questione nazionale e a quella dell'occupazione. Io penso che oltre ad affrontare, dal punto di vista di Mazzetti posto poco fa, si può affrontare anche dal punto di vista della ricognizione delle forze diverse, dell'esperienza e dei luoghi su cui organizzare questa sperimentazione della produzione.

Tra le tante modalità, attraverso le quali si può pensare a cancellare la questione meridionale, ce n'è una che secondo me farà sempre più strada nei prossimi mesi, che tende a cancellare oltre alla questione meridionale anche la questione della disoccupazione; tra un po' noi saremo assordati da una tesi che dice che nel mezzogiorno non c'è pressoché più disoccupazione; che questa sarebbe un'apparenza, perché in realtà l'organizzazione della vita nel mezzogiorno dà luogo a bilanci sociali concreti tutt'altro che diversi sia nella distribuzione del reddito che nella distribuzione del lavoro, per cui un giovane disoccupato su due sarebbe solo apparenza. Uno che ha cominciato ad esercitarsi su commis-sione su questa frontiera è Mario Pirani, che spiega che la disoccupazione reale è quella che si ricava espungendo da questa nozione quelle forze lavoro che per aspettative non possono considerarsi tali. Ma non c'entra nulla che tu non sia disoccupato oppure occupato, questo dato è un dato puramente statistico, in realtà, il criterio sociale per poter stabilire se sei disoccupato è dato dal fatto che vengono cancellati dal collocamento tutti coloro che non sono disposti ad emigrare, cioè che non sono disposti ad un processo di mobilità - tu non sei disoccupato se non sei disposto ad andare ad Hannover per trovare lavoro - perché in realtà il mercato facendosi globale chiede a te una mobilità indifferenziata. Secondo: non sono disoccupati quelli che hanno una aspettativa al salario contrattuale, perché quella è una condizione che non si dà in quell'ambiente, si dà la condizione del sottosalario e, quindi, se tu hai una aspettativa salariale incompatibile con la condizione della forza lavoro completamente determinatesi pretendi un lusso che non ti può essere consentito e quindi vieni cancellato. Terzo: vengono cancellati tutti coloro che hanno una aspettativa, tutti coloro che non sono disponibili a qualsiasi lavoro. Se uno ha una aspettativa professionale, ricavata dal suo percorso formativo, dalle sue competenze, dalle sue professionalità e pensa alla sua collocazione sul mercato del lavoro per aggiungere la realizzazione di quell'aspettativa in realtà è fuori dalla collocazione per la disoccupazione, perché si chiede insieme alla mobilità e insieme alla disponibilità al salario così come si trova sul mercato anche la disponibilità alla caratteristica di lavoro così come si trova sul mercato. E infine vengono espunti quelli che non sono disposti ad un lavoro saltuario e precario avendo una aspettativa di sicurezza.

In realtà vengono espulsi dalla no-zione di disoccupati tutti coloro si aspetterebbero una condizione comparabile con quella che il movimento operaio e sindacale ha costruito, guadagnando una protezione salariale alla fase precedente dello sviluppo industriale. Tutti coloro che stanno fuori e sotto questo campo possono essere considerati, quanti dunque? il 5-6%, se togli la disoccupazione dei pensionati del 2-3% si riduce all'1-2-3% di disoccupazione reale, che sono esattamente quelli che possono essere occupati con l'accelerazione del decentramento dell'apparato produttivo, con una violentissima ricorsa al sotto salario e alle condizioni di lavoro possiamo dire disastrose. Noi, per poter combattere una battaglia per il lavoro dobbiamo fare un'operazione speculare a questa dei nuovi apologeti che dicono che la disoccupazione non è a quel tasso del 25/30%. Noi dobbiamo precisamente avere una capacità mobilitativa di quel 25-30% di disoccupazione che contiene tutte quelle domande che rispetto alla condizione del mercato sono domande ricche. Cioè, in realtà, noi dobbiamo organizzare una lotta che non sia solo quantitativa, perché se no non funziona, ma deve essere in grado di rispondere ad un elemento quantitativo e qualitativo, cioè di aspettative salariali di sicurezza che sono connesse ad una domanda di lavoro, altrimenti tu, senza saperlo, scivoli su un terreno che l'altro ti impone come trappola, cioè che sono occupabili soltanto a coloro che sono disponibili a tutto.

C'è qui un problema della individuazione del lavoro e di organizzazione della rivendicazione che non è semplicemente il problema per chi ha un lavoro, ma di un intervento che qualifichi la pre-stazione lavorativa e l'intervento sulla qualità dello sviluppo e della sua traiettoria. Secondo, i luoghi dell'organizzazione della nostra iniziativa. Io oggi credo che un primo terreno sia quello dell'intervento del controllo sociale e della ricostruzione del movimento sulle esistenze, cioè sul terreno su cui oggi noi insistiamo, così come è. Mi riferisco in particolare a luoghi come quelli delle metropoli, delle campagne, delle aree interne e delle preesistenze industriali che ci sono sul terreno dell'industria. Sulla campagna, il discorso che ha fatto qui Vincenzo Aita e' secondo me significativo, perché c'è un problema di riconversione della organizzazione delle produzioni esistenti verso nuove frontiere che noi abbiamo pressoché abbandonato.

Dopo la stagione alta delle lotte operaie e del famoso slogan "Nord Sud uniti nella lotta" che è arrivato al plafonamento della produzione al Nord (nei punti alti di lotta ho fatto vertenze in cui c'era insieme la riduzione dell'orario e il pla-fonamento delle produzioni per il decentramento nel Mezzogiorno, per dire che quella cosa là ha avuto addirittura traduzioni rivendicative vertenziali nei punti alti del movimento operaio) è arrivata la sconfitta degli anni '80, quel terreno è stato totalmente abbandonato, tanto è vero che anche nel Mezzogiorno la difesa dell'occupazione è condannata al momento difensivo. Quando sei tanto bravo, ma devi essere tanto bravo altrimenti non hai nemmeno il momento difensivo, perché tutti i processi di ristrutturazione nel Mezzogiorno non hanno avuto lotte difensive se non in qualche caso, anche in Campania, sono state isolate, circoscritte e sconfitte. Ma lotte difensive degne di questo nome non se ne ricordano, nella fase finale, se non (insisto) nelle esperienze particolari, in una particolare fabbrica, con una particolare rappresentanza sindacale, con un particolare sindacato. Fino, appunto, alla disperazione (da noi condivisa, ma disperazione resta) di un lavoro tremendo, come quello nella miniera di carbone in Sardegna, di cui viene rivendicata dai lavoratori la privatizzazione per difendere il posto di lavoro.

Sono stato con Valentini in questa miniera, ho espresso tutta la nostra militante solidarietà, ma francamente avevo i brividi nella schiena; cioè, l'idea che in uno dei lavori più difficili e disagiati, in condizioni di nocività alte per sé e per il territorio, pur di difendere il posto di lavoro si subiva anche l'ulteriore devastazione della privatizzazione (che vuol dire in larga misura un uso incontrollato del territorio e della forza lavoro), è una cosa terrificante. Badate che loro stringevano i denti e contavano su una risorsa, che è anche una illusione, con il fatto che avrebbero arginato questa offensiva sulla base della loro straordinaria professionalità. Pensiamo che il vincolo con cui si oppongono all'intervento del privato consiste nella loro straordinaria pro-fessionalità, nella loro straordinaria storia, nella loro straordinaria comunità, che è una popolazione di miniera. Ma come sappiamo bene dalle vicende inglesi, questa idea è generosissima, ma difficilmente reggibile. In ogni caso, questa cosa ci parla di un limite drammatico, perché, voglio dire, sarebbe immaginabile che almeno in una condizione come questa, si potesse guadagnare l'autogestione; non so se è chiaro, ma almeno quello, siccome io ho un patrimonio che è la mia idea, la mia storia, la mia memoria, cioè io sono realmente padrone, diciamo concettualmente e organizzativa-mente del lavoro di miniera, posso chiedere l'intervento del pubblico che faccia da sfondo all'autogestione.

Il fatto che non c'è via di uscita dell'ENI che invece di essere privato sia una prova di autogestione, è davvero grave, ma a questo punto non ci siamo non per quelli della miniera che hanno fatto un miracolo, ma perché' l'armatura complessiva del movimento non muove in questa direzione. Su questo caso c'è da dire che più in generale sul terreno delle lotte sull'esistente verso la ricon-versione, non ci siamo. Non ci siamo dal punto di vista dei processi produttivi dello sviluppo merceologico, non ci siamo dal punto di vista degli assetti proprietari, del rapporto con l'ambiente, ma è questo, appunto, che va ripreso; cioè, io penso, che non possiamo avere un at-teggiamento semplicemente distratto sulle esistenze, cioè sulle esistenze si fa quello che si può, no!. Se si vuole ricominciare si devono introdurre degli elementi di qualità nella lotta sull'esistente. La città, cioè, oltre che i luoghi della produzione, i luoghi della vita. Sulla metropoli siamo di fronte alla fisica messa in crisi delle due idee forza che sono emesse del governo delle città' nel mezzogiorno: Bassolino a Napoli e Leoluca Orlando a Palermo. Leoluca Orlando, con l'idea, sostanzialmente, della sottra-zione di spazi della città alla devastazione, con la liberazione di alcuni spazi della città, che però alla fine anche quando produce in quel territorio risultati entusiasmanti, poi espone il problema del governo alla impossibilità di trovare una qualsiasi soluzione al problema della di-soccupazione.

Pensiamo ovviamente all'allargarsi a macchia d'olio di intere zone della città fuori dal controllo civile: apri il Casseo ma al quartiere ZEN non ci entri più, neanche scortato dalla polizia. Si spacca il tessuto della grande metropoli, perché forme di governo privatistico (e, in questo caso, anche malavitoso) entrano in campo a sopprimere un progetto di questo genere.

A Napoli dove batti la strada della normalità e poi hai una vicenda come quella di Secondigliano, si dimostra che non è possibile la visione della dimensione municipalistica. Altro che sindaco d'Italia, perché tu nella dimensione municipalistica sei eroso nelle fondamenta, e Secondigliano è quasi un simbolo, dove si apre una voragine e sprofonda dentro questa città. Questo è un problema del risanamento delle città, come una questione della struttura. Quando parliamo di nuovo modello del sud, da dove cominciamo se non co-minciamo da qua, cioè dalle ipotesi di risanamento e di introduzione di fattori della qualità della vita come fattori critici del vecchio sviluppo e punto di costruzione di casematte che indicano una tensione, non una soluzione, ma una tensione e una critica rispetto a quello.

Se io dovessi pensare a un autono-mia mista oggi, penserei ad una economia mista in cui da un lato c'è il nostro problema dell'intervento sulla trasformazione del mercato e dall'altra c'è una costruzione di attività extra mercantile, esattamente l'idea che Giovanni Mazzetti ci ha detto qui, non nel senso che ci ag-giungo un pezzo, ma nel senso che introduco una tensione, una duplice tensione, una tensione rispetto una domanda di distribuzione del lavoro, delle ricchezze prodotte, e di intervento a introdurre nuovi fattori di lavoro. Cioè vediamo una dialettica, per usare un termine degli anni 60, tra accumulazione pubblica e accumulazione privata. La corrente italiana che venne definita poi dei riformisti rivoluzionari, forse esagerava a pensare alla possibilità, attraverso la concentrazione delle riforme di struttura e della rottura, di dislocare il primato della accumulazione pubblica rispetto a quella privata, e infatti oggi sta avve-nendo una cosa diversa, ma è giunta l'idea che tu devi tendere ad un com-promesso dinamico e in questo compromesso tu ci devi mettere dentro dei fattori che vanno oltre le proposte del mercato. Possono esserci partecipazioni statali, intervento pubblico, oppure lavori socialmente utili o un'altra cosa insieme na-turalmente alla contestazione del lavoro salariato, ma questo è un punto incontestabile, oppure abbiamo solo l'intervento sul lavoro salariato re-gredendo alla fase pre-keynesiana. Invece dobbiamo aggredire questo modello di accumulazione sia dal punto di vista dell'intervento critico da parte del lavoro salariato, sia dell'introduzione, in tensione critica rispetto a questa, di finalità e mezzi extra mercantili. E' il regno della libertà? Ma neanche per sogno, è invece una forzatura e una tensione.

Chi lo fa il risanamento delle grandi città' del mezzogiorno, chi lo fa l'intervento contro la rendita, la contrattazione? Ma non lo vedete il fallimento clamoroso dell'idea della programmazione contrattata? Clamoroso! La Pantanella, a Roma, è un monumento a questo fallimento: che cosa fai tu, gli dai un pò di rendita e lui ti restituisce un pò di spazio dichiarato? Questa è l'idea della città? oppure è un'idea di risanamento; ma se è un'idea di risanamento è un'idea di lavoro organizzato, se è un'idea di lavoro organizzato è un'idea da perseguire attraverso un lavoro or-ganizzato.

Sto parlando di centinaia di mi-gliaia di posti di lavoro, sto parlando di una organizzazione industriale dal punto di vista del modello organizzativo, non di quattro signori o signore messi a lavorare per pulire quello che c'è da pulire in una città, sto parlando di lavoro buono, sto parlando di una capacità di intervento di risanamento, che richiede tecniche sofisticatissime, di informatica, di innovazione dell'organizzazione del lavoro; una capacità di produzione e di organizzazione, di strutture, di servizi, di modalità di appoggi diversi, di frontiere inesplorate di nuova organizzazione del lavoro. Anche nell'esperienza europea molte delle lotte fatte dagli operai per una critica capitalistica del lavoro sono state appoggiate al fatto che in altri settori alcune di queste, seppure in maniera spuria, nuove organizzazioni del lavoro si siano prodotte: tu hai fatto la battaglia contro la catena di montaggio, perché da qualche altra parte si era sperimentata l'isola. E oggi qual'è il laboratorio, il terreno su cui ci si esperimenta sulle nuove forme di organizzazione del lavoro? Questo mi pare il punto: un grandioso progetto ed una reinvenzione dell'intervento pubblico, che crei una forma di organizzazione di lavori socialmente utili, come grande operazione politica, economica e sociale per quantità, qualità e organizzazione è una leva straordinaria.

Se è questo il mezzogiorno, si deve riscattare per forza; se è questo, perché rompe sul lato del mercato e rompe sul lato della distribuzione, chiede progetti e anche incentivi. E non vedo in che cosa consista per esempio la contraddizione tra questo autore e il governo democratico del territorio perché quello può diventare il braccio armato della sua forza democratica, ma richiede una tecnostruttura, delle competenze aggregate, una possibilità di rilevazione. Si tratta di sapere chi governa, chi sopraordina, quale progetto politico. Perché poi un progetto politico richiede una definizione tecnico-organizzativa e non può essere in mano solo ai privati.

Il punto è sapere l'ordine, la determinazione, e se è così allora è indubbio che si chiamano in causa tre cose. Se è così ha ragione Schettini, la questione del Mediterraneo è cruciale: il punto del Mediterraneo non è un pendolo che va dall'Europa al Mediterraneo dove, a seconda di dove stiamo ci piazziamo. Il Mediterraneo è un punto dialogico con la costruzione europea oggi, e di dialogo critico; costruire un sistema di relazioni con il Mediterraneo è una condizione ambientale per parlare dello sviluppo del Mezzogiorno.

In secondo luogo, se non hai un interlocutore invece che a Bonn anche ad Algeri, tu non vai da nessuna parte e la costruzione della cooperazione con Algeri, con l'Egitto, con i paesi insomma del nord del mediterraneo, è un punto decisivo, ma non solo dal punto di vista dell'inizio della relazione geografica e culturale, dal punto di vista precisamente dall'insorgenza delle domande e delle comunicazioni. La modificazione del modello di sviluppo la fai quando porti dentro domande diverse per quello a cui sei uso.

In terzo luogo, questo progetto per il mezzogiorno richiede un senso fortissimo del rapporto con le grandi questioni nazionali che riguardano il salario (non si costruisce un movimento nel mezzogiorno senza una forte leva salariale e una nuova scala mobile); la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro che per quanto nel mezzogiorno pone un problema, come in tutte le zone a scarsa quantità di lavoro esistente, tuttavia sia per collocazione nel discorso nazionale, sia per distribuzione reale nel mezzogiorno è assolutamente fondamentale; la riforma fiscale come grande operazione di reperimento delle risorse per avviare un piano di lavori e di rinascita del Sud.