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Come ne avevamo discusso prima che facesse irruzione sulla scena politica italiana la prospettiva del presidenzialismo. Questo, alterando la qualità della partecipazione consapevole delle popolazioni alla produzione e al controllo delle scelte e dei rapporti politici e sociali, avrebbe una sicura e per ora incalcolabile influenza negativa su un progetto, pur necessario, di costruire un ruolo e una collocazione qualificati del mezzogiorno nei processi di globalizzazione e di inte-grazione sovranazionale in atto. Infatti i vincoli e gli ostacoli ad un avanzamento del mezzogiorno non sono stati e non sono prevalentemente di natura economica, ma piuttosto riferibili ad un deficit di autogoverno e di autonomia collettiva ed individuale. Credo che questo deficit sia stato aggravato nel corso dell'ultimo quarto di secolo dal tipo di compromesso che ha retto il modello di sviluppo italiano, che, detto all'ingrosso, può essere espresso così: al centro-nord mano libera alle imprese sulla ristrutturazione, al sud mano libera alla intermediazione politico-affaristica sulla spesa pubblica trasferita (l'intreccio affare-politica, comunque, non è stata, come ha dimostrato tangentopoli, una prerogativa del mezzogiorno).

Credo sia utile tornare a guardare l'Italia, l'Europa e il mondo dal mezzogiorno come Gramsci ci aveva abituato a fare. Almeno per due ragioni: la prima deriva dalla constatazione che l'apertura all'Europa e al mondo, a cui l'economia e la nazione sono state co-strette, hanno fatto saltare il compro-messo di cui si è parlato; la seconda deriva dalla considerazione che il mezzogiorno rappresenta una metafora ravvicinata e complessa delle contraddizioni che il capitalismo della terza fase produce. A questi processi e a queste contraddizioni più generali vanno riferiti e collegati alcuni fenomeni che dovrebbero essere meglio indagati. Il fenomeno più vistoso, il cui svolgimento è tuttora in atto, è rappresentato dalla lega nord, dalle minacce di secessione e di separa-zione, che anche se espresse in modo grossolano e a volte istrionesco, trovano le loro ragioni nel profondo sconvolgimento prodottosi nei modi di produrre e scambiare che ormai si svolge su uno scenario planetario. Sono note le analisi sulla frammentazione e mutazione della composizione delle classi, sulla nuova organizzazione del lavoro, che va sempre più includendo componenti cognitive, sulla tendenza della grande impresa da una parte ad appropriarsi non soltanto della forza muscolare ma anche dell'anima dell'operaio, dall'altra a snellire la produzione. La cosiddetta terza Italia, il modello adriatico sono figli di questa gigantesca operazione che ha avuto costi elevati: De Cicco e Baldassarre hanno calcolato che i due milioni di miliardi di debito pubblico equival-gono ai due milioni di miliardi di eva-sioni fiscali consumate in questa area. Ed è in quest'area, la padania, che i più forti premono con la loro "rivoluzione", mentre i luoghi più deboli della società e del territorio nazionale sono preda di una passività dura a rompersi. Mi chiedo, ora che il mezzogiorno non serve più né come mercato, né come riserva di mano-dopera quale destino avrà? Temo possibili episodi di scatti subalterni, di ripresa di una funzione regolatrice da parte della criminalità organizzata. Il mezzogiorno mi sembra stretto tra una "rivoluzione delle elites", le insidie mafiose, episodi di organizzazione del lavoro di tipo asiatico (Melfi, Santeramo, ecc. ecc. ) e politiche governative del tutto inadeguate: per il mezzogiorno si propone flessibilità di salari, come si tenta nei contratti di area, e opere pubbliche di tipo tradizionale. Sono queste le ragioni per cui bisogna rilanciare in termini nuovi, adeguati a quei processi di mondializzazione e di informatizzazione di cui ho parlato sopra, la questione meridionale come questione mediterranea ed europea. E' su questo sfondo che io ritengo giuste le proposte programmatiche qui avanzate. Lavoro ed ambiente rappresentano effettivamente due delle idee centrali intorno a cui promuovere l'iniziativa politica e di massa. Né l'uno né altro problema può essere affrontato in un'ottica strettamente nazionale e privatistica: infatti sul terreno della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario, del cruciale problema della immigrazione, di incentivazione per gli insediamenti produttivi, al fine di evitare contraccolpi, si richiede un coordinamento quanto meno con i paesi del mediterraneo. Lo stesso vale per i problemi ambientali. Un solo esempio: è possibile risolvere il dramma dell'inquinamento, della salvaguardia delle coste, della difesa delle acque senza coordinare gli interventi tra i paesi rivieraschi in un mare dove ogni anno, quando tutto va bene, si di-sperdono da uno a due tonnellate di greggio? Io credo che anche sull'intervento pubblico bisogna dire una parola chiara. L'intervento pubblico nell'economia deve essere sostenuto e qualificato , esso deve essere orientato verso la qualificazione e lo sviluppo delle infrastrutture che elevano le funzioni del territorio. E' necessario portare gli standard di servizi e civiltà, con un programma in cui sia stabilito il tempo della sua rea-lizzazione, al livello medio nazionale. A questo proposito, credo, sia utile seguire e regionalizzare le proposte ed il metodo avanzati nel piano dell'occupazione della Lega Ambiente. A me sembra giunta l 'ora anche di ragionare intorno ai modelli merceologici che si vogliono affermare attraverso anche l'incentivazione degli investimenti produttivi. A proposito di in-centivazione, mentre non capisco perché nel documento di Nerio Nesi si riproponga un'auctority, che mi evoca fantasmi che sarebbe meglio non evocare, sarei più propenso a ragionare intorno alla costituzione di una banca dello sviluppo con capitale dello stato centrale, delle regioni ed anche dei privati, che si dia piani di orientamento degli investimenti nelle direzioni che un nuovo modello merceologico e la creazione di posti di lavoro richiedono. Se c'è un deficit esecutivo, si ricorra alle agenzie ad hoc. Ho insistito sul nodello merceo-logico perché esso è legato ad una grande questione che non può essere elusa: la soddisfazione e prima ancora la formazione dei bisogni. Si è molto discusso e si discute sul rapporto tra produzione, consumi e formazione dei bisogni. Il terreno della produzione dei consumi è quello su cui si svolge non soltanto la vita economica e sociale, con i suoi domini e le sue dipendenze, ma anche la colonizzazione dell'immaginario attraverso la produzione di bisogni che servono non alla reintegrazione dell'uomo, ma a perpetuare la funzione autoriproduttiva della produzione stessa. C'è stata una discussione intorno alla natura del bisogno. C'è stato chi ha definito i bisogni come un dato della natura e non invece, come io credo, un'elaborazione sociale. Non sembri strano, ma l'enfasi che si pone intorno al ruolo degli esperti, dei tecnici e persino del governo tecnico è legata a questa concezione dei bisogni. Infatti se il bisogno è naturale, se è un dato della natura allora per soddisfarlo non c'è bisogno delle relazioni fra gli uomini, del confronto, dello scambio e del riconoscimento con e degli altri, basta l'esperto, il tecnico. Anche la politica si fa amministrazione, mestiere ed in essa vengono annientati quegli elementi che dovrebbero connotarla come una fra le più alte attività umane: mi riferisco alle coppie conflittuali dominio-liberazione, alienazione- reintegrazione umana. A questo proposito conviene concretamente sperimentare il rapporto tra produzione, consumi e tradizioni, culture, esperienze del territorio. In questa pratica si può rinvenire una risposta , oltre che al bisogno di autonomia culturale e materiale, anche, più in generale, alla pretesa di estendere il modello carolingio ai luoghi più deboli dell'Europa. A proposito di produzione, consumo ap-propriazione senza limiti degli incrementi di produttività, rapporti col territorio, Serge Latouchr propone addirittura il "protezionismo regionale" e un "tetto" ai redditi, toccando così il cuore di una grande e incomprensibile elusione culturale prima che politica: la questione della proprietà nel capitalismo della terza fase, che si fonda sulle "macchine parlanti" e sulla globalizzazione. Le nuove tecnologie comunicative nell'organizzazione della produzione e della vita rappresentano la metafora della "crisi" nel senso di Ippocrate: la fase in cui si concentra il massimo del pericolo e il massimo delle occasioni. Quando l'uomo primitivo, 15-20.000 anni fa, scheggiò per la prima volta una pietra, fece un utensile, un'arma, sostituì ed estese l'uso della mano. Quando inventò il vapore e l'elettricità sostituì la forza muscolare, ora con le macchine parlanti si sostituisce la mente, per ora esecutiva, calcolistica dell'uomo. La prima scoria fu una scheggia di pietra, oggi le scorie sarebbero i corpi e le menti, insomma gli uomini. Un mezzogiorno vuoto di chances di lavoro non sarebbe più soltanto una sacca di disoccupazione, ma una discarica umana, che, come le discariche vere e proprie, potrebbe essere un buon affare per la cri-minalità organizzata. Ma questa nuova e complessa fase, le nuove tecnologie, soprattutto quelle comunicative, le forme di lavoro cognitivo rappresentano anche occasioni, non solo per accrescere la produttività, ma anche e soprattutto per perseguire traguardi di liberazione e reintegrazione umana, di autonomia individuale e collettiva. Il mezzogiorno potrebbe essere un laboratorio straordinario. C'è la necessità e ci sono le condizioni per pensare ed avviare un progetto in cui la congiuntura sia legata alla prospettiva. I cardini di un tale progetto dovrebbero essere: la rego-lazione e la finalizzazione delle tecnologie, la riduzione del tempo di lavoro e sostenute condizioni di reddito, e con un diverso rapporto col tempo del non lavoro, e quindi col tempo della riproduzione sociale per un reale superamento della divisione del lavoro tra i sessi, la costruzione di una cultura e di una mentalità del "consumo critico", la cura e la difesa della natura e degli ambienti, in particolare quelli urbani, investimenti, come ho già detto, che sviluppino le funzioni del territorio e l'attività produttiva posta in relazione alle compatibilità e sostenibilità am-bientali, al consumo critico, alla storia e alle tradizioni del territorio. Credo, insomma, che bisogna operare uno sforzo per combinare la soluzione di problemi quotidiani, che sono anch'essi prevalentemente di beni e di merci immateriali, con, se è possibile ancora dirla con Gramsci, una "riforma intellettuale e morale".