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Concordo con l'impostazione del problema che Brunetti ha fornito con la sua introduzione, Non posso però nascondere anche un disagio. Ed è un disagio che il susseguirsi degli interventi non fa scomparire. Di che cosa si tratta? In questa sede, come in altre sedi, sento spesso i compagni evocare "una nuova idea di sviluppo" o il "bisogno di uno sviluppo nuovo".

Un'evocazione con la quale non si può non essere d'accordo. Ma che cosa la segue? Che cosa accade quando si deve passare a dar corpo a questa idea e a questo bisogno? Quasi nulla: vale a dire che non c'è alcun passaggio dall'astratto al concreto, ed il discorso soffre di una piattezza che lo rende accettabile solo per coloro che già lo condividono.

Ora, questa cosa non è strana. Il problema che abbiamo di fronte, nel momento in cui parliamo di disoccupazione, non è un problema semplice: chi continua a trattarlo come una questione a se stante, come il mero protrarsi di un problema di arretratezza economica, che richiederebbe solo una più forte volontà nel fare ciò che si sa fare, non vede come il mondo nel quale il Mezzogiorno d'Italia è inserito sia profondamente cambiato. Questo determina una situazione particolare nella quale non possiamo sperare di limitarci a ripetere il cammino già percorso da altre "aree" della società se le condizioni dello sviluppo sono cambiate, o lo sviluppo del Mezzogiorno ha luogo sulla nuova base, o non può intervenire. Cercherò di spiegarmi brevemente.

Come molti di voi ricorderanno, nel dopoguerra la questione meridionale fu al centro dell'attenzione nazionale. Oltre alla riforma agraria, ci fu tutto un fiorire di programmi di creazione di infrastrutture e di poli industriali, che avrebbero dovuto favorire il costituirsi di un tessuto produttivo analogo a quello già esistente nel settentrione ed integrato con quest'ultimo. In parte questi programmi hanno avuto attuazione pratica, garantendo uno sviluppo enorme. Ritengo infatti che sia essenziale, nell'affrontare i problemi che abbiamo di fronte, non dimenticare mai il cammino che è stato nel frattempo percorso.

La strategia delineata nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta ha però cominciato, verso la metà degli anni Settanta, a scontrarsi con delle difficoltà. In questa fase, infatti, è esplosa tutta una serie di problemi che hanno mostrato i limiti propri dello Stato Sociale. E poiché lo sviluppo del Mezzogiorno faceva interamente leva sullo sviluppo dello Stato Sociale, cioè su una continua crescita del ruolo produttivo dello stato, su un sostegno quanto più ampio possibile al consumo, ecc., la crisi di quest'ultimo non poteva non riflettersi sulle prospettive di sviluppo del Mezzogiorno.

I programmi elaborati a suo tempo hanno dovuto essere rallentati o, addirittura, accantonati. Per nostra fortuna un simulacro di politica keynesiana ha continuato ad essere praticato; la spesa, cioè non è stata contratta nella misura corrispondente al ridimensionamento dei programmi di industrializzazione. Da uno sviluppo keynesiano di tipo produttivo, si è così passati ad uno sviluppo di tipo improduttivo. Ma si è trattato pur sempre di uno sviluppo.

Qui debbo dire apertamente che dissento da tutti coloro che vedono quel fenomeno che spregiativamente definiscono con il termine di "assisten-zialismo" solo negativamente. Keynes ha infatti a suo tempo egregiamente dimostrato che, là dove non esiste lo spazio per una produzione che faccia crescere la base produttiva, è tuttavia indispensa-bile sostenere la domanda aggregata, perché solo in questo modo si evita la distruzione della base produttiva preesistente. Qualunque sia in merito l'opinione della Lega, il pilastro sul quale ha poggiato la conservazione dell'industria settentrionale è stato quello del sostegno dei consumi nazionali. Un pilastro che gli sviluppi più recenti cercano di abbattere nell'illusoria convinzione che da questo abbattimento scaturirebbero spontaneamente le condizioni di un nuovo sviluppo.

Qui non vorrei essere frainteso. Non sto dicendo che le pratiche keynesiane rappresentino la soluzione del problema che abbiamo di fronte. Al contrario sto solo sostenendo che esse hanno garantito che non intervenisse un drammatico regresso analogo a quelli che colpivano il mondo prekeynesiano quando in occasione delle crisi la produzione cadeva talvolta addirittura alla metà di quella che era stata appena qualche anno prima.

Ma la questione di come imboccare la via di un nuovo sviluppo rimane ancora aperta. Lungo quali direttrici possiamo cercare una soluzione? Cercherò di fornire qualche indicazione anche se il tempo a disposizione mi costringe ad essere estremamente sintetico. Perso-nalmente ritengo che si debbano rove-sciare i principi sui quali il progetto di sviluppo sin qui perseguito ha cercato di poggiare. L'orientamento prevalente è sin qui stato quello di espandere il lavoro, appunto perché il lavoro stesso costituiva il fattore principale dell'espansione della ricchezza. Ma la crisi delle politiche keynesiane - che, non dobbiamo di-menticarlo, sono politiche finalizzate alla continua creazione di occupazione aggiuntiva - esplode proprio perché diventa sempre più difficile espandere il lavoro. Si tratta di una situazione che era stata anticipata dallo stesso Keynes, il quale aveva previsto che seguendo i suoi suggerimenti si sarebbe trovati, nel giro di un paio di generazioni, a scontrarci con una grave difficoltà a creare il lavoro necessario, nella forma di un lavoro aggiuntivo. La via dello sviluppo nuovo, in quel mo-mento, avrebbe dovuto essere quella di una redistribuzione tra tutti del lavoro necessario.

Mi rendo ben conto che nell'ambito del nostro modo di pensare, questa evoluzione non è affatto pacifica. Essa investe infatti dei problemi, inerenti alle forme della ricchezza e della soggettività degli agenti sociali, ai quali, per i vincoli di tempo, non posso nemmeno far cen-no. E si tratta di problemi che, investendo il modo stesso di produzione e di vita, non possono essere risolti tutti d'un botto. Ma sono problemi che, nel processo di una rifondazione comunista, ci investono direttamente.

Per concludere mi sembra che, sul piano dello sviluppo del Mezzogiorno, si possa sostenere quanto segue:

- è innanzitutto essenziale far comprendere con chiarezza che l'obiettivo della riduzione del tempo di lavoro a parità di salario rappresenta un obiettivo prioritario, senza confondere il problema dell'attribuzione a tutti di un lavoro con il vincolo della creazione di un lavoro aggiuntivo.

- E' inoltre importante lavorare all'individuazione programmatica dei bisogni che possono più coerentemente ed efficacemente essere soddisfatti con una produzione locale e battersi per un trasferimento di quelle attività salariate, con una loro diffusione generale su tutto il territorio nazionale.

- E', infine, rilevante cominciare ad operare una individuazione di quelle attività produttive di tipo non lavorativo che possono anticipare uno sviluppo alternativo e far leva su di esse per mettere in movimento il tessuto sociale in concomitanza con la lotta per la redistribuzione del lavoro.

Nel muovere in questa direzione non dobbiamo però dimenticare il problema che ho evidenziato all'inizio, e cioè quello inerente ai nostri stessi limiti. Il lavoro da fare nella società, risulterà così per quello che è, e cioè un lavoro da fare innanzi tutto su noi stessi.