Intendo introdurre alcuni elementi di riflessione, in forma problematica, per consentire un primo confronto collettivo, partendo dalla constatazione che il "terremoto" prodotto dalla crisi organica che sconvolge il presente si apre come scommessa sul futuro. Gramsci ci ricorda che la crisi consiste nel fatto che mentre il vecchio muore il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati; fenomeni che da noi si presentano come torbida prospettiva.

Questo terremoto mette in evidenza anche quanto siano in crisi le consuetudini interpretative e sonnolente della realtà che in questi anni hanno prodotto, a sinistra, una rovinosa scissione tra l'inerzia del pensiero e la dinamica del reale da cui nasce il grande impulso a voler rimettere in campo, con un forte strumento di massa, il binomio inchiesta-azione di lotta. "Inchiesta ed azione" perché, per dirla con Marx, per noi, la comprensione positiva dello stato delle cose esistenti, include si-multaneamente anche "la comprensione della negazione dello stesso".

In questa fase, trainata dall'ideologia del neo liberismo e del finanzialismo; sublimata nelle ideologie delle privatizzazioni selvagge; auscultata attraverso le psicologie della civiltà dello spettacolo e del dominio dei mass-media per cui esiste solo ciò che appare: analizzata dalle statistiche sui gradimenti di un nuovo ceto politico, spesso patetico, che si ricompone nel suo rigido riciclaggio; mentre si tenta di rimodellare lo stato pun-tando sul presidenzialismo ed una concezione del federalismo separatista ed antimeridionale onde costruire una "seconda repubblica", internazionalmente subalterna e internamente regressiva quale versione italiana della mondializzazione; noi dobbiamo, allora, sottolineare, al contrario, che per uscire dal labirinto delle nuove mode e dalle esasperanti tattiche politiciste di conquista del centro, neppure di marca neo giolittiana, non vi sia altra strada che ritornare alla inchiesta e riattivare idee e azione per lanciare una sfida alta di egemonia, a sinistra, capace di costruire, con la gente, una politica alternativa. Questa prospettiva si fonda sulla necessità di tornare a ricordare che le classi e i conflitti esistono ancora e le grandi contraddizioni come quella tra Nord e Sud diventano sempre più acute nella fase presente.

E proprio sul Sud e attorno al Sud dobbiamo ricominciare a ragionare, tentando una prima lettura critica della realtà e introducendo nel nostro lavoro elementi di organizzazione della nostra partecipazione al conflitto sociale: un appuntamento, insomma, con la elaborazione del programma che, per essere credibile, richiede un percorso che definisca le soggettività, i momenti di organizzazione e di introduzione, appunto, del conflitto nella politica. Ciò bisogna farlo partendo soprattutto dal Sud ove maggiori sono i rischi che - se la rabbia e le inquietudini non diventano coscienza collettiva di uscita dalla crisi a sinistra - il Sud venga usato negativa-mente dentro un disegno antidemocratico e autoritario. In questo senso dovremmo fare tesoro delle lezioni della storia, ricordando i "moti di Reggio" a cavallo degli anni 60/70; ma anche saper leggere con attenzione i segnali di questi giorni:l'occupazione dei municipi di San Giovanni in Fiore e San Demetrio Corone in Calabria; gli incendi di Enna; la strumentalizzazione della disperazione, in tutto il Sud, sul riscatto della case popolari o sulla cancellazione della norma di salvaguardia dell'anzianità di iscrizione nelle liste di collocamento come diritto di avviamento prioritario al lavoro. Segnali, questi, che ci dicono come, ancora una volta, il Mezzogiorno torna ad essere drammaticamente centrale perché in esso si annodano emblematicamente, dentro la drammatica crisi sociale ed istituzionale, i valori costituenti della Repubblica: l'unità nazionale e la democrazia.

Del resto, non è un caso che la "questione meridionale" abbia costituito, storicamente, uno dei punti forti dell'autonomia teorica della sinistra e non solo nella denunzia dei ritardi e delle arretratezze, ma in quello più profondo che è stato l'avere intuito come la strutturalità della condizione del Mezzogiorno costituiva il punto di avvio di analisi teoriche e proposte politiche configuranti un nuovo assetto di stato e di democrazia. Punto di forza, questo, anche sul terreno concettuale, che ha connotato quella che si è solito definire come "tradizione comunista". La mobilitazione delle masse meridionali; la loro organizzazione in soggetto autonomo; il pro-tagonismo politico e la radicalità sociale, hanno costituito il punto di maggiore antagonismo raggiunto dal vecchio PCI (dal socialismo di classe, dal sindacalismo rivoluzionario del Sud e dalla sinistra intera) rappresentando, ed anche per questo, gli elementi più significativi per la costruzione di una identità forte di grande partito di massa.

Le lotte esaltanti che hanno investito il meridione nel secondo dopoguerra, proprio in ragione del loro antagonismo e della carica alta di radicalità, hanno caratterizzato una grande stagione etico-politica, costringendo ad una forte tensione in senso democratico le stesse scelte delle classi dominanti e del partito che ne ha avuto la rappresentanza.

La crisi di quella che è stata chiamata la "rivoluzione passiva" si evidenzia nel fatto che è in atto il più massiccio attacco, dal dopoguerra, alla democrazia; la stessa crisi di ogni velleità riformista sta nel fatto che, oggi, il partito della sinistra moderata, il PdS, deprivato del retroterra teorico e di una identità storico-ideale, non riesce ad andare oltre un tentativo di intruppamento al centro.

Ma proprio qui sta la ragione e la necessità di una pre-senza antagonista di classe che abbia una egemonia forte sull'intera sinistra da costruire anche, - o forse principalmente - a partire dalla riproposizione della "questione meridionale" come grande questione nazionale e democratica.

Abbiamo incominciato, perciò, ad interrogarci su cosa vuol dire "Mezzogiorno oggi": il Sud non solo - come si dice nel documento di base della conferenza programmatica di Rifondazione Comunista -visto come modello concreto di regressione sociale, ma anche su cosa esso è concetamente dentro i modelli di mondializzazione dell'economia e rispetto al trattato di Maastricht; e cosa può diventare nella visione di un novo sviluppo che lo veda, invece, come cerniera fra l'Europa e il Mediterraneo.

Insomma, è certo che non possiamo non usare la questione del Mezzogiorno come categoria interpretativa della mondializzazione capitalistica, ossia come parte di un processo generale e, tuttavia, dobbiamo prendere atto che esso mantiene una sua specificità anche se il paradigma dell'impresa e del mercato fa del Mezzogiorno e della disoccupazione, in esso concentrata, pure variabili dipendenti da questo meccanismo di accumulazione, dato che assolutizzando il potere dell'impresa e del mercato viene espunto il Mezzogiorno e l'occupazione dalla logica mercantile, cosa questa che richiama, appunto, la necessità di un altro tipo di progetto alternativo e impone un nuovo ragionamento sullo stesso intervento pubblico in eco-nomia.

Noi abbiamo necessità - dentro quello che è stato chiamato il paradigma della compatibilità impossibile - di cogliere anche le verità interne al Mezzogiorno entro questo contesto: un Sud in cui si concentra gran parte della disoccupazione italiana; con il reddito pro-capite metà di quello della Lombardia; un divario infrastrutturale, rispetto al Nord, che connota il divario della società civile con consumi che aprono uno stridente contrasto tra la concentrazione di ricchezze prodotte in maniera illegale e la povertà pubblica. Ma soprattutto un Sud che evidenzia un dato strutturale drammatico nel momento in cui emerge sempre più a livello fisico, una divaricazione di fondo con la stessa questione di ieri del Mezzogiorno. Per usare una categoria analitica gramsciana si potrebbe dire che, nel Sud, è andata affermandosi, in questi anni, una sorta di modernizzazione passiva e senza sviluppo, eterodiretta, trapiantata dall'esterno, che lo ha omologato al "modello nazionale"; che ha certamente modificato modi di vita, culture e comportamenti, ma proprio questo nuovo modo di pensare, di agire, di vivere entra, oggi, in rotta di collisione con la desertificazione del Mezzogiorno sul terreno produttivo; la distruzione dello stato sociale; la precarizzazione rovinosa della società; il dramma collettivo della disoccupazione, soprattutto dei giovani e delle ragazze; la sperimentazione, in molte regioni meridionali, della povertà di massa che non è misurabile solo dalle condizioni materiali di vita ma anche dal deficit di infrastrutture, dall'indebolimento della presenza scolastica, dagli ospedali che diventano ghetti dequalificati, dall'assenza di strutture culturali, dalle carenze nell'apparato giudiziario, dalla devastazione am-bientale e via elencando.

Questo processo di marginalizzazione crea inquietudine, coagulando in sé idee e stati d'animo diversi; accomuna mille frustrazioni che costituiscono il migliore terreno di coltura delle strumentalizzazioni avventuristiche e dell'espandersi del dominio incon-trastato della mafia.

E' questo circuito che bisogna spezzare. Ciò può avvenire non solo riformando nel profondo la macchina della Stato, ma modificando il meccanismo di accumulazione e di distribuzione del reddito per mettere in moto nuove forme di sviluppo.

Cianciare sul federalismo è divenuto oggi lo sport nazionale. Anche noi potremmo più legittimamente ricordare - su questo terreno - l'indicazione gramsciana nella lettera per la fondazione dell'Unità, della prospettiva di una "Repubblica federativa degli operai e dei contadini". Ma penso che in questa sede sia indispensabile indicare come nemico mortale, come grave rischio per la democrazia, la concezione di un federalismo secessionista che divide il Paese in regioni produttrici e regioni consumatrici, che porterebbe ad una spaccatura dram-matica dell'unità nazionale, facendo del Sud una enorme bidonville della metropoli carolingia.

Questa prospettiva diventa inquietante; ed è qui che dobbiamo riflettere sul nostro "che fare?", ponendoci interrogativi, scandagliando meglio la realtà, puntualizzando l'agire politico.

Può sembrare un paradosso, ma il primo interrogativo che viene da porsi è se si conosce veramente, oggi, il Mezzogiorno come realtà storico-sociale, o se esso lo si consideri solo come un immaginario politicistico-moralistico di mafia, clientelismo, corruzione, parassitismo: roba, insomma, da delegare ai Prefetti e all'occupazione militare!

C'è, certo, mafia, clientelismo, corruzione e parassitismo, ma poniamoci un altro interrogativo: cos'è il Mezzogiorno in termini generali? ; e, poi, dentro di esso: cos'è - come ci chiedevamo assieme a Pino Ferraris già di fronte ai moti di Reggio, intuendo con rigore di analisi il problema - quel "mostruoso nodo di contraddizioni sociali, di paradossi economici che sono le città meridionali, luoghi di attrazione per masse illuse e poi deluse in cui si esprime la speranza e la frustrazione, la supplica e la protesta? città imbarbarite che esplodono im-provvisamente all'interno del loro patologico gonfiore, escrescenza gravida di iniquità e di conflitti". Abbiamo noi un'analisi nuova del peso, del significato, della natura delle realtà urbane del Sud? e di cosa vivono le moderne città meridionali, che ruolo e che natura ha la rendita? e questa rendita, come agisce nel patto di unità nazionale? e che peso continua ad avere la permanenza di una cultura rurale e familistica? E ancora: possediamo noi la mappa della nuova geografia sociale del Mezzogiorno, delle mutazioni interne all'area meridionale, degli spopolamenti e delle concentrazioni, delle nuove stratificazioni sociali? E infine: che peso ha la campagna se è vero che in essa l'occupazione, nell'agricoltura meridionale, è ancora circa il doppio di quella media nazionale? Come va ristruttu-randosi il potere e qual'è il nuovo blocco dominante e che funzione assume in questo contesto l'intreccio sempre più forte tra settori politici, mafia e massoneria? Qual'è il ruolo delle istituzioni locali, oggi? Quali sono le forze sociali antagoniste e cosa rappresentano i partiti della sinistra e il sindacato? Quali possibilità di nuove aggregazioni su interessi omogenei delle classi subalterne e delle masse giovanili che, nella fascia fino al 26° anno di età, superano il 60% di disoccupazione? Su quali tensioni ideali è possibile una mobilitazione, da sinistra, del Sud; quale idea-forza è capace di unificare, di far lottare, di trascinare il movimento?

Grandi interrogativi, dunque, si allineano davanti a noi, ma essenziali, su cui non possiamo glissare se vogliamo stare dentro i processi e, in ogni caso, essere in grado di indicare obiettivi di movimento credibili.

Sinora, è stata data una forte connotazione alla discussione, partendo da punti di impegno legati al tema del lavoro: riduzione dell'orario a parità di salario, occupazione, scala mobile. Grandi parole d'ordine generali, giuste ma che, per essere unificanti, è indispensabile coniugarle con la realtà del Sud in cui la capacità d'inchiesta deve produrre informazioni attendibili e legate alla realtà, incominciando a vedere quali possono essere i meccanismi di difesa delle famiglie colpite dalla crisi; come intervenire sulle strutture socializzanti (scuola, università, sanità, ecc.); come si può affrontare l'approccio con le figure sociali principali che emergono dalla crisi. Insomma, bisogna andare alla precisazione di obiettivi credibili al Sud, che possono essere praticati partendo da una prima constatazione: un cinquantennio di intervento straordinario non è servito a colmare il deficit strutturale di base, largamente al di sotto degli standard minimi di civiltà. Ciò è dipeso da un uso di rapina delle risorse pubbliche che - è bene dirlo - ha saldato in un unico disegno affaristico, mafia del Sud e grandi imprese del Nord, coinvolgendo largamente la società ed ha fatto emergere, soprattutto negli ultimi decenni, un ceto politico vorace, che oggi si ricicla e perpetua la sua continuità nella nuova dislocazione del potere, senza senso dello Stato, che ha chiesto soldi senza saperli spendere, utilizzando, dentro una ferrea logica consociativa, gli enti locali, sub regionali e le regioni con uno spirito di mafiosità cinico e determinato che è stato alla base dell'impalcatura illegale della società.

Ora, l'intervento straordinario - che ha espresso il massimo della corruzione ed è stato alla base dell'estendersi, sin nei gangli più reconditi della società, della cultura dell'illegalità, raggiungendo una forza mai conosciuta nel passato - è stato seppellito senza che si affermi, però, alcun altra politica di sviluppo regionale. Le risposte alla drammatica situazione sociale del Sud sono gli inutili "libri bianchi" e la riattivazione delle risorse legate al periodo di tangentopoli come segnale di con-tropartita alla cooptazione della mafia nei nuovi poteri, o le illusorie proposte delle gabbie salariali la cui cancellazione fu una grande conquista del movimento operaio e della unità nella lotta tra il Nord e il-Sud, dimenticando che la sottoccupazione, il caporalato, come forma precaria della sub-occupazione, del lavoro nero, del sottosalario, dell'assenza di garanzie legislative e contrat-tuali sono "gabbie" già esistenti e differenziale salariale che hanno dimostrato di non produrre occupazione ma solo profitti.

Si può, forse, aggiungere, semmai, che proprio il caporalato - che è una forma specifica ed illegale nel Mezzogiorno - sta diventando la norma formalizzata delle grandi multinazionali per prendere e dare in prestito la forza lavoro attraverso le proposte del lavoro "ad interim". Bertinotti insiste spesso su questo: la condizione di precarietà è una linea guida della organizzazione industriale, sia nelle sue condizioni materiali (dal lavoro a domicilio fino al lavoro in prestito), sia nei suoi connotati istituzionali. Così, la flessibilità, la precarietà costitui-scono uno degli elementi fondamentali della riorganizzazione del lavoro nella società post-fordista. Il toystismo ha sull' altra faccia la precarietà del lavoro come elemento organico. E io vedo qui, oltre al problema della riduzione dell'orario, un forte elemento unificante della lotta che può unire il Nord e il Sud del nostro Paese.

Per tornare, però, all'intervento nel Sud non sembra che la politica ordinaria reclamata per le aree nazionali in ritardo di sviluppo dopo la cancellazione dell'intervento straordinario, si profili all'orizzonte. Allora, infrastrutture civili, strade, ferrovie, scuole, case, acqua, risanamento dei centri storici e dell'ambiente, parchi, verde pubblico, metanizzazione, trasporti, consolidamento del territorio, beni culturali, strutture scientifiche, giustizia efficiente, possono essere rivendicazioni mobilitanti e capaci di riaffermare la necessità di una politica per il Sud, con la consapevolezza che, per una fase non breve, senza il concorso della cooperazione, della solidarietà esterna, il Mezzogiorno difficilmente potrà imboccare il sentiero di uno sviluppo duraturo, tanto più che, volendo aggiungere un altro elemento di riflessione, il sistema bancario e creditizio blocca anche le iniziative locali e chiude ogni nuova prospettiva. Forse proprio su questo punto è necessario fare una attenta valutazione. Abbiamo davanti a noi dati sconcertanti: tra i Paesi europei, l'Italia è l'unico in cui si pratica un credito differenziato secondo aree geografiche; al Sud il denaro costa tre punti in più rispetto al Nord. Le banche impegnano nel Sud solo il 60% dei depositi, mentre al centro-nord si supera l'80%; nel Sud gli Istituti finanziatori concedono fidi bancari solo a fronte di garanzie reali superiori agli 80 miliardi, pari al 90% della cifra erogabile, tagliando fuori tutta la imprenditoria locale, mentre nel centro-nord le garanzie richieste si fermano al 50% anche per l'imprenditoria minore. E' stato calcolato da centri di ricerca che, con questo meccanismo, sommando i maggiori esborsi ed i minori introiti, l'economia meridionale perde annualmente cinquemila miliardi per il più alto costo del denaro e la minore retribuzione dei depositi. C'è, quindi, un rastrellamento di risorse dal Sud verso il Nord reso possibile anche dal fatto che, ormai, gli Istituti di credito del Nord hanno coloniz-zato le banche del Sud, alcune delle quali, nel passato, per statuto, assolvevano ad una importante funzione sociale. Banca Popolare del Materano, Cassa di Risparmio di Sicignano, Banca Popolare di Napoli, City Bank Italia,(già Centro Sud), Banca Stabiese, Messicassa, Banca Mediterranea, Carical, Cassa di Risparmio Salernitana, Sicilcasse, sono già controllate da tre colossi: Cariplo, Ambro Veneto e Banco di Roma. E non se la passano bene neppure Banco di Napoli, Banco di Sardegna, Banco di Sicilia, che sono i maggiori istituti del Sud.

Siamo, dunque, di fronte ad un processo che soffoca ogni possibilità di espressione delle potenzialità economiche di per sé già condizionate dalla assenza di infrastrutture adeguate di comunicazioni commerciali che sono destinate ad aggravarsi ulteriormente con il previsto piano sull'alta velocità delle ferrovie tendente a smantellare anche la pur modesta rete ferroviaria esistente nel Sud. Si appalesa, allora, la necessità di rilanciare una grande iniziativa che coniughi il problema del lavoro con l'adeguamento delle infrastrutture civili.

Si è da noi individuato, da qualche tempo, quale via possibile di intervento il filone dei lavori socialmente utili. Forse è utile un approfondimento del significato di questa proposta dal momento che essa può prestarsi ad equivoci.

L'idea, da aggiornare anche nella sua terminologia, per noi è quella di porre in campo un'ipotesi che, seppure diversa nella qualità, può essere paragonata nella sua forza dirompente, alle grandi battaglie del passato per l'industrializzazione del Mezzogiorno, non tanto per quel che è stata, che impone, peraltro, anche il recupero di una critica ambientalista a quel tipo di sviluppo, ma come dato vissuto: come possibile svolta nel Mezzogiorno, che poggi su una grande prospettiva di nuovo sviluppo. E' stato ricordato che dopo la grande crisi americana del '29, l'amministrazione Roosweltiana ha lanciato negli USA, con il newdeal, un grande piano per l'occupazione. Noi, ovviamente, non proponiamo questo, ma un'idea alta di quelle proporzioni che faccia anche da apripista ad una nuova industrializzazione possibile del Sud. Un segnale forte, cioè, che riapra nel Mezzogiorno la speranza di nuove occasioni di lavoro per le nuove generazioni, tanto più che ciò è possibile nel concreto. Basti guardare ai centri storici degradati; alle coste violentate; alle zone interne investite da una progressiva disgregazione e spopolamento; ai disastri ecologici ed ambientali legati anche ad una logica affaristico-mafiosa che vede il Sud come pattumiera di scorie radioattive; alle opere non completate; basta guardare a questo scenario inquietante per accorgersi di quanto lavoro ci vorrebbe per innalzare la qualità della vita ed i livelli di civiltà.

Possiamo, allora, incominciare ad assumere questi problemi come possibili elementi fondativi di un nuovo sviluppo? Si può ripartire, in questa fase, da un progetto di sviluppo autocentrato sulle risorse umane, ambientali, artistico-culturali del Sud per rilanciare una nuova speranza di rinascita? Io credo, davvero, che questa può essere una strada, tanto più che il Mezzogiorno non può aspettare le industrie che chiudono al Nord, oppure valutare come positive operazioni come quella di Melfi, luogo ove si esercitano politiche sperimentative di forme di sfruttamento, in altri posti impossibili e nel Sud prati-cabili per la disoccupazione a limiti, ormai, insopportabili. Vedere il Mezzogiorno, in definitiva, come sede di sperimentazione e formalizzazione del lavoro "povero", del lavoro nero, del lavoro precario e sottopagato, quando, invece, il problema che abbiamo è quello del lavoro e basta, anche quale elemento unificante nella battaglia sul salario; come leva per la riproposizione della "questione meridionale" e come grande occasione storica per impedire alle ottuse classi dirigenti di questo Paese di rimuovere la più grande contraddizione che guida le loro scelte.

Per questo, oltre a richiamare alla nostra attenzione nomi antichi - lo Stato, la storia, le alleanze, l'egemonia - dovremo anche essere capaci di reinventare forme di lotta che riannodino i fili spezzati con la grande tradizione del movimento operaio e del leghismo bracciantile meridionale con tutta la sua carica di azione diretta che ha caratterizzato la storia italiana del dopoguerra: riscoprire, cioè, la pratica dello "sciopero alla rovescia" come forma di intervento organico dei disoccupati su obiettivi da scandagliare in un lavoro di inchiesta collettiva e raccogliere in veri e propri "piani per il lavoro" da elaborazione per aree e zone, attorno a cui la massa delle ragazze e dei giovani disoccupati, altamente scolarizzata (che va sempre più, paradossalmente, connotandosi come massa d'urto ai contadini poveri del dopoguerra re-pubblicano), possa "praticare l'obiettivo" del lavoro, chiamando ad un impegno nuovo le autonomie locali rinnovate, il ruolo delle Regioni con più poteri e in un diverso raccordo con lo stato e le strutture comunitarie su progetti mirati e finalizzati alla creazione del lavoro.

Dentro questa visione, l'intervento pubblico, anzicché inseguire la logica delle cattedrali nel deserto o rincorrere le fumisterie dei mega progetti, come il ponte sullo stretto di Messina, che alimentano le voglie della mafia; invece che distribuire, come nel passato, prebende a fameliche clientele per riciclare vecchi apparati in un nuovo sistema di potere, può, al contrario, costruire le trame di un intervento che vada dalle infrastrutture essenziali di base e di servizio fino ai legami di cooperazione internazionale a partire dalle frontiere del Mediterraneo su cui alcuni elementi stimolanti di approfondimento sono scaturiti anche dal controvertice di Barcellona organizzato dalle organizzazioni non governative, dalle associazioni am-bientaliste e del volontariato le quali possono diventare nostre naturali alleate nella costruzione di una nuova idea di sviluppo sostenibile.

Su questo si gioca anche la sfida per la egemonia a sinistra. Andiamo infatti verso uno scontro aspro tra due diverse strategie; due forme di valutazione delle cose, di visione e di conoscenza del mondo. Per noi la conoscenza del mondo sta nella sua trasformazione che, per dirla con Gramsci, può avvenire se "l'uomo attivo di massa opera praticamente" per questo obiettivo. Sta qui la nostra azione strategica alternativa che si sostanzia nel concreto, in questa fase, nella costruzione di un fronte unitario di mobilitazione attorno ai problemi del lavoro da rivendicare nel Sud e per il Sud con un nuovo ciclo di forti lotte sociali.

Dinanzi allo scenario che si prospetta davanti a noi in cui si sta giocando una desolante partita a fioretto che ha come posta in gioco una grande ammucchiata al centro nel tentativo di normalizzare la società, soffocando la Costituzione, manomettendo anche i connotati sociali della sua prima parte onde garantire gli interessi della grande finanza; dinanzi alla rinuncia definitiva alla rappresentanza dei ceti oppressi da parte del PdS, che ha rimosso la questione sociale e le ragioni del conflitto di classe imboccando la strada dell'esasperato politicismo e sacralizzando l'autonomia della politica; a fronte di tutto ciò, diventa sempre più urgente rilanciate in maniera forte la voce dei più deboli: riproporre, cioè, una nuova ten-sione morale, sociale, politica e culturale che è la storia stessa dei comunisti e della sinistra di questo Paese la quale ha sempre visto il binomio Mezzogiorno-intellettuali come punto trainante di un grande cimento nella difesa della democrazia repubblicana.

Anche in questo momento difficile della vita del Paese, coincidente con il fatto che gran parte degli intellettuali ha perso il gusto dell'analisi della realtà sociale ed ha smesso di chiedersi cosa stia avvenendo nel Mezzogiorno, noi dobbiamo riaffermare la convinzione che i saperi scientifici hanno un ruolo essenziale nella riattivazione di una nuova cultura meridionalista calata dentro i processi in atto in Europa e nel mondo; una cultura che faccia riemergere l'idea di uno stato democratico che, per essere tale, deve riassumere la "questione meridionale" come propria identità.

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