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Relazione Mario Bolognari
(28 luglio 2002)
"La cultura come risorsa. Una sfida di cooperazione transfrontaliera tra Calabria e Albania, per fare delle minoranze linguistiche e delle risorse ambientali una comune potenzialità di sviluppo"

L’idea proposta dell’Istituto Mezzogiorno Mediterraneo, di una cooperazione culturale tra una Regione dell’Italia Meridionale, come la Calabria, e l’Albania è affascinante per almeno tre motivi.

Le relazioni all’interno del Mediterraneo hanno avuto storicamente una base interculturale; infatti, tutte le imprese coloniali, di conquista militare o anche si contatto commerciale o politico sono state caratterizzate dal principio dello scambio culturale. Anche nelle condizioni di maggiore squilibrio tra dominante e dominato, la forza del Mediterraneo è consistita nella capacità di sopravvivenza delle tracce originarie di ogni popolo e nella influenza avuta dai dominati verso i dominatori. Il flusso interculturale, insomma, è il tratto essenziale dell’identità complessiva della civiltà mediterranea. E’ evidente che questo processo millenario ha determinato una base di assonanza culturale che oggi riscontriamo in tutta questa vasta area, che non si connota più come semplice entità geografica, ma trae contributi alla formazione dell’identità mediterranea proprio dalla storia, dalla religione, dalla alimentazione, dalla cultura giuridica, dalle istituzioni politiche, che si sono avvicendate nel corso dei secoli.

In secondo luogo, tra i Balcani e il Sud Italia c’è una comune vocazione di territori, con le loro culture, lingue, religioni, paesaggi, colture, ecc., di margine tra oriente e occidente, tra nord e sud; territori intesi come concetti e concezioni, oltre che come aree geografiche. Questa vocazione nel passato ha riservato dolorose esperienze, di conflitto e lacerazioni, nonostante sia stata offerta a queste due grandi aree, proprio in ragione del loro essere di confine, una opportunità di sviluppo tra le più straordinarie che siano state date nella storia dell’umanità. Nella situazione contemporanea è interesse della comunità internazionale che quella storica vocazione sia confermata, non certamente in chiave conflittuale e di lacerazione, ma come grande opportunità di dialogo e di scambio. In un certo senso, proprio le aree più a rischio di conflitto, possono e devono recitare un ruolo di ricucitura.

Il terzo motivo consiste nel fatto che nel caso specifico, la Calabria e l’Albania, la presenza plurisecolare di tracce arbereshe in Calabria rende più semplice, diretto, quasi obbligatorio almeno il tentativo di realizzare una forma di cooperazione culturale. Infatti, non v’è dubbio che la persistenza dinamica della lingua, della religione, della mitologia, della volontà di appartenenza etnica, spesso al di là e contro ogni reale possibilità, al di là e contro ogni plausibile necessità, ha reso la presenza arbereshe in Calabria (ma potremmo aggiungere anche le altre sei regioni dell’Italia meridionale dove sono insediate le popolazioni di origine albanese) un sicuro riferimento culturale anche per l’Albania, che per mezzo millennio ha subito una pesante dominazione. Non è un caso che durante il Risorgimento albanese la presenza arbereshe fosse divenuta essenziale per la elaborazione dei temi della lotta di liberazione e per la creazione di una identità nazionale.

Quindi, questa idea è valida sia per le sue valenze generali, sia per il suo significato specifico.

Per esempio, essa può contribuire notevolmente a comprendere in chiave diversa e positiva un fenomeno oggi molto sentito sia sulle due sponde dell’Adriatico: l’emigrazione. Dopo cent’anni di emigrazione calabrese in America, Europa e Australia ci siamo abituati a pensare il problema della mobilità delle popolazioni in termini di partenza e di arrivo, mentre in realtà l’emigrazione non è mai stata esattamente così, ma un fenomeno più complesso di diffusione, scambio, prestiti tra culture diverse. Anche come semplice fenomeno di mobilità geografia di rilevanti quantità di persone, l’emigrazione ha avuto movimenti che hanno condotto da un paese a un altro e viceversa, da un paese a un altro e poi a un altro ancora; con una complessità di flussi che spesso è sfuggita all’analisi sociologica, antropologia e anche all’analisi politica ed economica.

In ogni caso, oggi non è più possibile analizzare la mobilità di milioni di persone che si muovono in un contesto mondiale, favorito da uno sviluppo crescente dei mezzi di trasporto e di comunicazione, con il vecchio armamentario dell’analisi dell’emigrazione così come si è andata costituendo nel corso del Novecento.

Pensare il trasferimento di persone da una sponda all’altra dell’Adriatico, del Canale di Sicilia o di qualunque altro tratto di mare, come emigrazione tradizionale è un assurdo. In primo luogo, perché non corrisponde alla realtà storica odierna, nella quale il fenomeno si sviluppa in modo più complesso, oltre che in modo molto più rapido, di quanto non avvenisse nella emigrazione tradizionale, di tipo industriale. Inoltre, perché non serve ad affrontarlo in termini scientifici, essendo oggi molto resistente l’attaccamento alle radici di origini che restano pur sempre vicine, raggiungibili, riconquistabili in tempi rapidi e con grande facilità. Non solo, ma non serve neanche a risolvere il problema in termini politici. Tutta la legislazione dei paesi europei, compresi gli ultimi provvedimenti dell’Italia, come del resto era avvenuto per gli Stati Uniti  e per altre realtà mondiali, non riesce a risolvere il problema. Anzi, molte volte, le leggi più rigorose e restrittive dell’immigrazione, sono proprio quelle che generano più consistenti fenomeni di flussi illegali, poiché non si preoccupano delle cause della mobilità, ma soltanto degli effetti.

Questo esempio è significativo perché il problema della mobilità globale è il problema del 2000, a causa delle guerre regionali, della fame, delle catastrofi ecologiche, dell’instabilità politica. Nell’intero globo, sempre più interconnesso al proprio interno, sia in termini economici, sia in termini ecologici, sia in termini sociali, la spinta di cinque sesti della popolazione, che tende a conquistare un posto laddove sono concentrate le ricchezze, determina una legge fisica di espansione che nessuna regola interna a un paese o internazionale può modificare, almeno fin quando restano costanti i dati di produzione, di distribuzione, di controllo delle risorse mondiali. Ma anche nelle aree più circoscritte, come è quella del Mediterraneo, la osmosi demografica segue una analoga regola di comportamento. Per fare un esempio specifico, il fenomeno dei gommoni e delle “carrette del mare” che attraverso le acque dell’Adriatico hanno trasferito migliaia di profughi albanesi in Italia dal 1991 e per circa un decennio, è stato controllato e contrastato con misure di polizia e militari, ma non si è arrestato finché è rimasta alta una domanda in quel settore. Il prezzo pagato, in vite umane e in principi etici che sono affondati miseramente, non ha arrestato la folle corsa di uomini e donne e bambini verso il miraggio italiano. L’azione di repressione ha avuto, però, l’effetto di far impennare le tariffe di quel commercio di clandestini. Oggi possiamo affermare che il fenomeno, per quanto riguarda gli albanesi d’Albania è finito; è finito perché sono mutate le condizioni dell’Albania, perché si sono gettate le basi per il decollo sociale ed economico di un paese che sta riconquistando lentamente la propria dignità e il proprio ruolo in Europa.

Negli ultimi due o tre anni la dinamica migratoria tra l’Albania e l’Italia ha assunto nuove forme e nuovi contenuti, che andrebbero indagati e approfonditi. Infatti, in Italia si sono formati diversi nuclei albanesi che, al di fuori dello stereotipo criminale (droga, prostituzione, furti), vivono e lavorano stabilmente, sognando magari un ritorno in patria, ma operando nel contesto sociale ospite con la prospettiva di farlo diventare quello dei propri figli, quindi con un coinvolgimento culturale ed emotivo fortissimo.

Nello stesso tempo, è avvenuto anche che molti emigrati degli anni 1991-98, smaltita l’ubriacatura europea e constatata la consistenza illusoria di certi sogni televisivi, così come di certi racconti di amici e parenti partiti precedentemente, abbiano deciso di rientrare. Si tratta di persone che pagano un prezzo psicologico altissimo, a causa della dichiarazione di fallimento della loro esperienza di fronte a coloro che erano rimasti, ma che certamente costituiscono un potenziale notevole per la ricostruzione della nuova Albania. La loro breve esperienza in Italia è importante per il loro reinserimento nella società albanese.

Inoltre, c’è anche il rientro fortunato di coloro che hanno realizzato dei risparmi e li investono in Albania, per costruire la casa, rilevare un’attività commerciale, avviare un’impresa.

Tutto questo, che, per esempio, nell’emigrazione italiana in America è avvenuto in cento anni, adesso è avvenuto in dieci anni. Il tempo, in termini di qualità delle trasformazioni culturali, è una variabile non indifferente.

L’unica possibilità di porre in termini adeguati e aggiornati il tema è di pensare alla mobilità/migrazione in termini di interscambio. Cioè, porsi il problema di quale ruolo hanno e possono avere gli italiani in Albania e quale ruoli hanno e possono avere gli albanesi in Italia, sia sul piano economico e sociale, sia sul piano culturale, artistico e scientifico. Ciò presuppone un rapporto paritario, di interesse reciproco, e non di tipo coloniale o di sfruttamento; non è pensabile che oggi due paesi vicini, in prospettiva appartenenti alla Unione Europea, interessati alla stabilità e alla pace del Mediterraneo, lascino che le relazioni tra i due popoli rispondano alle leggi selvagge del mercato delle merci, degli uomini, delle risorse naturali. Va, indubitabilmente, trovato un metodo alternativo, più moderno ed efficace.

In questo campo la Calabria ha una chance in più: possiede da 500 anni un modello storico di relazioni tra culture diverse, che offre una chiave di lettura alle relazioni che si stanno instaurando all’interno del Mediterraneo; ha anche un modello specifico di relazioni tra gli Arbereshe e gli albanesi.

Quale può essere la base di un interesse reciproco, che bandisca la retorica e ponga su un terreno concreto la questione?

L’Albania di oggi ha il problema di creare un’identità nazionale. Essa deve essere necessariamente radicata nella storia del Risorgimento albanese e del riscatto dalla dominazione turca; deve essere anche capace di staccarsi sempre più dai condizionamenti del regime comunista nel quale gli spazi di libertà individuale erano praticamente nulli. Questa identità nazionale non va creata dal nulla, naturalmente, ma esiste già nel popolo albanese, se è vero, come lo è, che quel popolo ha cacciato i turchi e quello stesso popolo ha cacciato i fascisti, i nazisti e si è liberato dal regime. Il problema, semmai, è quello di dare a questa identità un suo posizionamento, come si direbbe in un linguaggio da marketing, nel contesto internazionale. Tale posizionamento potrebbe essere tale da diventare intensamente dialogante con l’oriente, grazie al passato plurisecolare di contatto e contaminazione con la cultura e la religione dei popoli mediorientali, ma, allo stesso tempo, proteso verso l’orizzonte europeo, approdo naturale della recente storia di quel paese. Tutto questo sarebbe un eccezionale frutto della storia al servizio della pacificazione dei Balcani, con riflessi positivi non soltanto in quell’area, ma in tutto il mondo. Tuttavia, questo è impossibile farlo senza partner, senza confronti ravvicinati, senza aiuti.

La Calabria, invece, ha il problema di uscire dal ruolo marginale che nel contesto europeo le viene riservato, nonostante si tratti una regione transfrontaliera, che si affaccia su un versante ribollente di conflitti e di tensioni vecchie e nuove, ma che non ha una funzione internazionale. Deve difendere la propria specificità culturale, perché soltanto così può tentare di conservare una autonomia che nei processi di globalizzazione diventa essenziale; nello stesso tempo deve trovare anche uno spazio nella dinamica politica e culturale dell’Unione Europea, in sintonia con le regole da essa dettate, prima che il 2006 cancelli l’attuale status di regione svantaggiata/privilegiata. Questo non è possibile realizzarlo senza partner; partner che vanno ricercati nel sud/est, cioè in quella area culturale che caratterizza paesi in via di sviluppo e “diversi” con i quali l’Europa deve dialogare, se non si lascia prendere dalla sindrome della fortezza assediata, che veniva paventata nel 1995 Hans Magnus Enzesberger. Una tale strategia non allontanerebbe la Calabria dall’Europa, perché, in realtà, la avvicinerebbe ad essa con pari dignità, con tutto il bagaglio di conoscenze, esperienze e relazioni acquisite fuori dall’Europa.

Come è possibile realizzare un tale incrocio di interessi? Innanzi tutto, partendo dai beni culturali e dalle risorse ambientali, come suggerisce questo convegno. In particolare, aggiungendo ai tanti obiettivi che già sono stati tracciati, i seguenti:
1) ricerche incrociate nei diversi settori delle scienze umane e sociali (per esempio, ricerche linguistiche degli studiosi albanesi presso le comunità arbereshe, storiche degli studiosi calabresi in Albania, o viceversa; ricerche etnoantropologiche e sociologiche da parte di gruppi misti; ecc.).
2) Cooperazione in produzioni artistiche e culturali (per esempio, cinema italiano in Albania, TV e radio miste, riviste in lingua albanese che raccolgano contributi dalle due sponde, ecc.).

La base culturale solida della cooperazione, così, diventerebbe la ricerca e la costruzione di luoghi della memoria collettiva. Luoghi della memoria collettiva che rischiano di perdersi nella frenesia e nella rapidità dei cambiamenti, come i luoghi topografici (archivi, biblioteche e musei), i luoghi monumentali (cimiteri e architetture), i luoghi simbolici (commemorazioni, pellegrinaggi, anniversari, emblemi), i luoghi funzionali (manuali, autobiografie o le associazioni).

Il lavoro di ricerca e documentazione va accompagnato da un’attività permanente, magari affidata a organizzazioni che già esistono e rappresentano in forma associata il desiderio di memorizzazione. Intendiamo le attività come il cinema, la fotografia, la video documentazione (recupero memoria e produzione di nuova memoria), le arti figurative (recupero e produzione), la letteratura (recupero critico e produzione).

L’insieme delle iniziative scientifiche e artistiche, naturalmente, deve essere di supporto a una migliore comprensione degli attuali processi culturali di trasformazione di una società, sia quello meridionale italiana, sia quella albanese, la cui sopravvivenza e autonomia e continuamente messa in discussione. E la comprensione va posta a base dei progetti politici che sulle due sponde si elaborano per costruire una integrazione reciproca. Infatti, qualsiasi progetto di integrazione che fosse concepito come unilaterale, come annessione di una parte da parte dell’altra, avrebbe vita breve e sarebbe carico di pericoli per i deboli equilibri euromediterranei.